Arau è il nome del nuovo progetto di Antonio Cogoni, abile chitarrista e compositore, sardo di nascita ma bolognese di adozione. Prima di calarsi nei panni del cantautore tout court, è stato leader di diverse band bolognesi e artista di strada nei più importanti festival busker in Italia e in Europa, e il suo curriculum vanta oramai una importante serie di riconoscimenti e successi in festival e concorsi in giro per lo stivale. Ha fatto delromanticismo il suo cavallo di battaglia e, attraverso eteree composizioni e una marcata ricerca dell’astrazione, ne ripropone la sua personale visione.
A pochi giorni dalla pubblicazione del suo nuovo album La lunga eclisse, l’abbiamo incontrato per capire meglio chi è veramente e per farci spiegare in che modo intende portare avanti la sua missione di “dare il giusto valore a un sentimento che mobilita le anime e le vite delle persone da secoli”.
Sin dalla scelta del tuo nome d’arte hai reso inequivocabile il legame con la tua terra e la sua identità, pur essendo nato e cresciuto musicalmente a Bologna. In che modo questo ha contribuito a plasmare il musicista che sei diventato?
Arau indica l’atto della coltivazione ed è il nome con cui ho battezzato il mio progetto cantautoriale perché, oltre a mantenere un legame con la mia terra di origine, mi consente di dare una precisa collocazione artistica alla mia musica: “Questo è il solco che io ho scavato nel mio terreno, questa è la mia identità, nel bene e nel male, ma questo sono io”.
Sono nato e cresciuto in Sardegna, ho un legame indissolubile con essa. È la mia vita e la musica che faccio non poteva che esserne un’emanazione.
Avevo voglia di creare un progetto che, discostandosi dalla musica popolare tradizionale, mi permettesse di conservare l’orgoglio e la dignità dei sardi, fondendoli tra brani acustici per chitarra e slide da ginocchia.
Nasco come autodidatta e suono lasciandomi trascinare dalle emozioni e dalle mie naturali predisposizioni. Cosa che rende tutto molto più semplice.
Sul tuo nuovo disco La lunga eclisse dici di cercare di “raccontare il romanticismo, l’astrazione dalla realtà, la forza dell’amore incondizionato, l’eterno dissidio tra ragione e sentimento e il senso della vita”. Ci puoi spiegare dove nasce l’esigenza del racconto di tematiche così alte?
Purtroppo viviamo nell’era dei selfie dove il massimo del corteggiamento romantico consiste in ore di ricerca dalla giusta posa prima della pubblicazione sui social, in attesa di like e cuoricini. L’esigenza di parlare di vero romanticismo parte dalla voglia di dare il giusto valore a un sentimento che mobilita le anime e le vite delle persone da secoli.
Se qualcuno mi dovesse chiedere “qual è la cosa per cui vale la pena vivere?” non avrei dubbi nel rispondere “il romanticismo”.
La lunga eclisse racconta in cinque forme diverse il mio modo di intendere il romanticismo, ma racconta anche storie vissute in prima persona questi ultimi anni che non scorderò mai.
Alcune di queste le ho volute raccontare attraverso metafore – come in Gravity e La lunga eclisse, la canzone che dà il nome all’album – altre ho avuto la necessità di raccontarle in modo più crudo e diretto. Come in Lasciati Sognare, un brano per me molto importante, dove racconto in maniera struggente il tentativo vano di salvare il rapporto di coppia e il sogno che lentamente abbandona una delle due anime. Scriverlo è stato terapeutico. L’insegnamento ricevuto da quella persona mi ha permesso di capire la vera forza dell’amore incondizionato.
Nell’artwork dell’album è molto presente lo spazio e le stelle, mentre in alcuni tuoi pezzi, come Gravity, parli dell’astrazione dalla realtà. Ci potresti spiegare i motivi di questi riferimenti?
Gravity mi ha emozionato sin dalla prima stesura. In molti hanno commentato dicendo che avevo scritto dell’innamoramento con una profondità rara. Ho pianto dalla gioia nel leggere queste parole.
L’astrazione dalla realtà è un cardine nella mia visione della coppia. Vivo il romanticismo e l’innamoramento come dentro una campana di vetro, dove la realtà si azzera. Lo spazio e le stelle rendono l’astrazione più semplice. L’artwork è semplicemente la materializzazione, nel booklet dell’album, di questo processo approccio.
Hai un’interessante gavetta alle spalle, che ti ha visto partecipare a progetti molto differenti tra loro e ricevere importanti riconoscimenti: al Bologna Music Festivalnel 2007, al Festival delle Arti di Andrea Mingardi nel 2010 e al Rock in June nel 2013. Ci puoi riassumere il percorso musicale che ti ha portato al progetto Arau?
L’Italia è un paese di festival: nasce, si ciba e vive con essi da sempre. E proprio grazie ai festival ho iniziato a girare lo stivale, attraversando quasi tutte le regioni da nord a sud, partecipando a eventi noti e meno noti. È senza dubbio un ottimo metodo per farsi le ossa, imparare a gestire un palco con grosse platee e farsi conoscere. Quando poi capita di esibirti con un certo Mogol in giuria che ti ascolta, ti premia, ti dice di venire al suo CET (il Centro Europeo di Toscolano, ndr), capisci che le cose iniziano a prendere una piega inaspettata (ride, ndr).
Mi è capitato di suonare in locali con due spettatori e in locali stracolmi con oltre 1000 persone, fare serate ben remunerate e serate dove i gestori, scontenti dello scarso pubblico, decidono di non retribuire la tua performance, o dover gestire l’ubriaco di turno che vuole suonare i tuoi strumenti. Successi e insuccessi. Posso dire di aver vissuto e toccato con mano la vera vita di un musicista indipendente, quella che alcuni degli aspiranti protagonisti dei talent di oggi non conoscono o non vogliono vivere perché ossessionati dal successo immediato.
Tanto romanticismo nei testi e altrettanta ricerca nei suoni e nelle musiche, ma anche quest’anno sarai presente al Ferrara Buskers Festival in veste di one man band e artista di strada, e sappiamo che non è la prima volta che partecipi. Che differenza c’è tra stare in strada e stare sul palco?
Il Ferrara Buskers Festival è il primo nato e il più importante di questo genere in Europa, e colgo l’occasione per ringraziare il patron Bottoni e figlia Rebecca, che mi hanno scelto nuovamente tra le tante proposte per questo appuntamento meraviglioso. Se ami la libertà, in tutte le sue accezioni, la strada è il posto in cui ogni musicista sogna di esibirsi. Ti fa sentire libero, senza schemi, tempi o scalette, talvolta con folle oceaniche con cui condividere emozioni. È semplicemente fantastico!
Il palco implica altre forme di condivisione con il pubblico, con un’organizzazione e regole precise e una forma spettacolo differente, ugualmente bella ma che ti responsabilizza di più, con pressioni talvolta scomode da gestire.
Alla fine, palco o strada che sia, la cosa più importante e suonare e condividere emozioni insieme. Spero presto di raccontarvi di una bella iniziativa di fusione trafilosofia busker e locali tradizionali, che mi vedrà partecipe con il progetto Arau.
Ha di recente visto la luce il tuo primo videoclip Gravity, realizzato con Weberry di Bologna. Come è stata questa esperienza?
È stata un’esperienza fantastica. La prima stesura del videoclip l’ho progettata in autonomia, con tanto di sceneggiatura, tagli di regia e inquadrature, ma i primi studi che ho contattato mi hanno fatto notare che avrebbe necessitato di produzioni degne diHollywood! Così l’ho asciugata un po’ e ho ripreso a proporla agli studi fino all’approdo alla Weberry. Qui mi sono subito sentito a casa. Non soltanto per la professionalità, la cura dei dettagli e la disponibilità dei mezzi che mi è stata concessa, ma anche perché il caso ha voluto che condividessi con la regista e co-fondatrice dello studio, Eleonora Carboni, la terra di origine e il temperamento. Un idillio artistico immediato e naturale, con lei e con tutto lo staff.
Realizzare il video è una stata una cosa incredibile: vivere in diretta la trasformazione in materia tangibile dell’immaginazione tramite sequenze filmate. Ringrazio davvero tanto WeBerry per la realizzazione del videoclip, del nuovo sito web www.arau.it e dell’artwork dell’album, partito da poco per la stampa fisica e presto ordinabile ancheonline.
In conclusione, ti va di mandare un saluto al clan Brincamus?
Certo! Ringrazio te Simone per le domande e Brincamus per tutto il lavoro fatto in questi anni per coltivare e accudire progetti di matrice sarda come il mio. Mi auguro che la Sardegna tutta possa avere lustro dai musicanti in tour per l’Italia e l’Europa.
Intervista a cura di Simone La Croce
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